
CANTO
TERZO
Nel canto precedente Dante e Virgilio sono stati ripresi da Catone, custode del Purgatorio, per essersi fermati ad ascoltare il musico Casella, amico del poeta fiorentino. Il canto III si apre con la ripresa del cammino dei due protagonisti. Nei primi versi Virgilio appare pieno di rimorso per il rallentamento: “El mi parea da sé stesso rimorso: | o dignitosa coscienza e netta, | come t’è picciol fallo amaro morso!” (vv. 7-9). Rallentando il passo, Dante osserva il monte e, riabbassando lo sguardo, nota una sola ombra, la sua, e pensa allora che sia scomparsa la sua guida. Virgilio, dopo aver rassicurato il poeta, spiega chenell’oltretomba le anime si presentano con l’aspetto dei corpi in vita, ma non sono materiali e lasciano passare i raggi, tuttavia possono soffirire i tormenti; così è stato stabilito dalla Grazia divina e “matto è chi spera che nostra ragione | possa trascorrer la infinita via | che tiene una sustanza in tre persone” (vv.34-36); in altre parole: è inutile cercare di decifrare l’intento di Dio. Nei versi successivi (vv. 46-102) Virgilio appare per la prima volta in difficoltà sulla strada da prendere, poiché egli non è un’anima del Purgatorio, ma dell’Inferno, e non conosce quindi questi luoghi. I due protagonisti sono costretti a chiedere la direzione ad alcune anime. Queste rimangono stupite alla vista di un uomo ancora vivo, notando la sua ombra, ed esitano a rispondere, Virgilio interviene, rivelando che la presenza di Dante è voluta da Dio. Tra queste anime emerge il personaggio centrale del canto, Manfredi, figlio naturale di Federico II. Alla morte del padre nel 1250, aveva assunto la reggenza della Sicilia e dell’Italia meridionale, fino alla arrivo del fratellastro Corrado IV dalla Germania. Alla sua morte Manfredi mantenne la reggenza al posto del figlio dell’imperatore, Corradino, troppo giovane per regnare. Nel 1258 si fece nominare re di Napoli e Sicilia, al posto del legittimo erede il tutore di Corradino, Papa Innocenzo IV, che scomunicò Manfredi, iniziando una lotta che si protrasse con i suoi successori. Solo con l’intervento di Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, Manfredi venne sconfitto nel 1266, nella battaglia di Benevento, in cui morì. Il suo corpo fu dissepolto e disperso (secondo la versione ripresa da Dante) dal vescovo di Cosenza. Dante vuole dimostrare, con la storia di Manfredi, che il volere di Papi e vescovi non corrisponde sempre a quello divino, e che la bontà di Dio può intervenire e salvare un’anima pentita, nonostante una scomunica: “Orribil furon li peccati miei; | ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei” (vv. 121-122). Manfredi, infine, prega Dante di riferire alla figlia Costanza, che si trova nel Purgatorio, e che, quindi, non è dannato.